Da Torino mi inviano un babà bianconero, un boccone amaro difficile da digerire.
Pubblico lo scherzo, ringrazio il mio amico per il dolce pensiero, sorrido ed attendo tempi migliori: prima o poi, il babà tornerà napoletano 🙂
Fox Mulder e Dana Scully tifano Napoli.
E’ quanto emerge dal sito ufficiale degli XFiles a poche ore dal big match con la Juventus.
Con una nota ufficiale, i due agenti speciali dell’FBI che da anni combattono per svelare la verità sugli alieni, incitano gli azzurri con la passione di due tifosi qualsiasi.
Per l’uomo capace di fornire spiegazioni impossibili a fenomeni a dir poco soprannaturali, stavolta non c’è nessun mistero: la superiorità del Ciuccio è schiacciante!
La piccola zebra – anche da un punto di vista scientifico – non ha possibilità alcuna.
Lei, rapita dal fascino di Higuain, lancia in un promessa-choc: se il Pipita bucherà la rete di Buffon, nella prossima serie la vedremo con i capelli (oggi rossi) dipinti d’azzurro!
Stasera, insieme a tutta la città, anche loro saranno incollati alla pay-tv: come noi, ci credono!
Il Vesuvio, per la vergogna suscitata dai ripetuti cori beceri che coinvolgono il suo altisonante nome contro Napoli, nasconde la testa tra le nuvole.
In attesa di quell’importante giorno quando la cultura cancellerà definitivamente il razzismo ed il pregiudizio, non mi resta che attestare come il «mostro» sia ancora vivo e forte.
Nella testa dell’ignorante.
Vivere con cinquanta euro (o dollari?) in tasca è impossibile.
Gli affitti delle case sono alle stelle (in quel vicolo stretto pretendono quattrocento euro!), fermarsi in albergo costa un occhio della testa.
Dopo mezz’ora dal primo incasso sono già a secco.
La Banca bussa alla porta: ipoteco le mie proprietà oppure rischio la galera.
Dopo lo choc, a ben riflettere, l’ipotesi prigione non è angosciante come appare.
Usufruisco del vitto e alloggio senza rischiare ulteriori spese.
Purtroppo la pausa dura comunque un tempo limitato e lo Stato – complice con le Banche! – mi infligge una cauzione per uscire dalle patrie galere.
Un prezzo che non posso sostenere.
Salto il via e proseguo spedito.
Meglio evitare le stazioni, il pedaggio pure ha un prezzo.
Quando finalmente riscuoto un affitto e la ruota sembra girare a mio favore, una nuova tegola: l’imprevisto è dietro l’angolo.
Becco una multa per eccesso di velocità e torno al verde.
La probabilità diviene certezza quando vinco il secondo premio di un concorso di bellezza!
Riscuoto e riparto baldanzóso.
Trascorrono gli anni, si susseguono le generazioni ma la regola base resta immutata: vince chi gestisce meglio il patrimonio (immobiliare ed economico).
Perché il segreto del successo è trovare il giusto equilibrio tra lo spendere e conservare, tra il coraggio di investire e l’eccessiva prudenza.
E nel Monopoly, senza un pizzico di fortuna, non vai da nessuna parte.
Proprio come nella vita.
Una piccola statua col volto immerso in una montagna di stracci.
Posta nei pressi di un cassonetto della spazzatura, provoca una reazione indignata del netturbino di turno: l’operatore raccoglie perplesso l’intero mucchio e lo getta nel camion dell’immondizia.
Salta sullo scalino posto dietro l’automezzo, con un cenno collaudato invita il collega a proseguire il giro.
Mentre il grosso e rumoroso camion raggiunge il successivo cassonetto da svuotare, il netturbino impreca contro l’incivile di turno.
L’operatore ecologico non immagina che trattasi della Venere degli stracci, opera installata al MADRE di Napoli, il Museo d’Arte Contemporanea Donnaregina.
«L’artista vuole provocare, indignare per far riflettere e sbalordire lo spettatore» sono le uniche spiegazioni che gli addetti del museo mi svelano durante la visita.
Il tour al MADRE prosegue, ogni collezione suscita la medesima domanda: di che tipo di ARTE si tratta?
Un enorme tappeto nero? Il baratro dell’essere umano.
Una statua orientale ripresa da una telecamera e mentre la guardo basito osservo me stesso nel televisore.
Descrivere le sensazioni alla vista di teschi illuminati, un manichino privo di braccia sospeso su un’altalena, un labirinto bianco o una stanza colorata è superfluo.
Ognuno interpreta a suo modo ciò che osserva.
Vado via sbigottito, mentre passeggio con le immagini ancora scolpite nella mente, rifletto sullo spettacolo al quale ho assistito.
Proprio ciò che l’artista aspira: far riflettere.
Il primo febbraio Alice dagli occhi blu compie diciotto anni.
Quando nacque, io ero un giovane di ventotto.
Da fresco neolaureato, cercavo lavoro.
Iniziai l’avventura proprio il primo febbraio.
Alle ore nove di quel giorno memorabile, mentre varcavo la soglia dell’EDS – la multinazionale americana dell’Information Technology nella quale emozionato esordivo – Alice gridava al mondo i primi vagiti.
Io neofita informatico alla ricerca del bug dell’anno 2000.
Alice, spuntano i dentini.
In trasferta a Roma e Siena.
Alice scopre l’asilo.
Sale d’attese di stazioni ed aeroporti, Milano e Londra prossime tappe professionali.
Il primo giorno di scuola, Alice col grembiulino troppo grande cerca la mano della mamma.
La crisi colpisce ed affonda l’informatica mondiale: iniziano le manifestazioni, tagli al personale e scioperi.
Alice impara a nuotare e gioca con l’amica del cuore.
Cessioni di ramo d’azienda, cassa integrazione, licenziamenti e fusioni di colossi tecnologici: siamo nel pieno della tempesta occupazionale.
Alice conquista il diploma di scuola media col massimo dei voti.
Io combatto per conservare il sudato posto di lavoro.
Alice, con lo smalto trasparente sulle piccole unghia, sogna di crescere.
Il vento frusta gli alberi e la pioggia picchia le grosse vetrate dell’ufficio.
Il sole estivo alto nel cielo terso ed il condizionatore a rinfrescare le intense giornate di lavoro.
Le stagioni scorrono con passione, la testa nel monitor perso tra i milioni di byte vaganti nel web.
Diciotto anni volano via con un clic del mouse.
Mi guardo dietro e rivedo i volti di tutti i miei colleghi, chi naviga con me ancora lungo le ingarbugliate autostrade digitali e chi ha intrapreso nuovi percorsi.
Il primo febbraio festeggio orgoglioso i miei primi diciotto anni di lavoro.
Un breve periodo storico capace di condensare i problemi affrontati da più generazioni dal dopoguerra ad oggi.
Mi chiedo: quando potrò spegnere il computer e godermi la dolce pensione?
L’orizzonte è lontano.
Il primo febbraio Alice diventa maggiorenne.
Con i suoi grossi occhi blu osserva il mondo.
Sorride, soffia con forza sulle candeline colorate ed esprime il desiderio.
Auguri Alice, l’avventura continua 🙂
Caro Carlo,
perchè produci un film insignificante come L’abbiamo fatta grossa?
Oggi sei nel pieno della maturità artistica, potresti osare e sperimentare.
Invece assecondi un progetto commerciale nel quale la tua impronta è inesistente.
Ammettilo: nemmeno tu credi nella tua ultima pellicola.
Assolvo il povero Antonio Albanese, troppo fedele per essere criticato.
Scusami Carlo ma la colpa è tua.
L’abbiamo fatta grossa non strappa una risata e non sprona nemmeno riflessioni.
In pratica non suscita emozioni e, sarai d’accordo, questa è la peggior condanna per un film.
Esco dalla sala indifferente, le scene scivolano via e non lasciano traccia nella mente e nel cuore.
Questo sentimento mi suscita rabbia.
Perché ti seguo da anni ed ogni tua storia rappresenta un pezzo importante nella filmografia italiana, un parte d’Italia descritta con ironia ed attualità.
Invece, questa ultima opera, è il vuoto assoluto.
Magari avrai pure racimolato qualche spicciolo facile ma con film simili perdi una fetta di credibilità verso i tuo fans.
Fumati una sigaretta, prenditi pure il giusto periodo di riflessione, non accettare i tempi frenetici ed i ricatti dei produttori.
Ai mercenari non interessa l’opinione dei tuoi fans, i manager contano solo il numero di biglietti staccati.
Caro Carlo, stavolta hai abusato del nostro affetto (lo sai noi ti perdoniamo tutto).
Aspetto il tuo prossimo film, un nuovo Iris Blond mi renderebbe felice.
E – sono convinto – renderebbe felice soprattutto te.
A volte mi domando
se vivrei lo stesso senza te …
se ti saprei dimenticare ..!
Ti amo.
(13.11.10)
Immagino l’autore (per galanteria definito un lui) della sofferta dedica.
Il cuore infranto e la mano tremante mentre impugna lo spray colorato.
Sul viso addolorato scivola una lacrima di nostalgia.
L’innamorato triste guarda la parete candida.
Un quesito gli dilania la mente: dove sei amore mio?
La domanda è a un vicolo cieco: abbandonato, desidera buttar fuori il dolore, esprimere la disperazione con le dovute parole.
Pagherebbe oro pur di liberarsi dall’angoscia che attanaglia lo stomaco.
E’ un attimo.
Una scintilla d’odio brilla negli occhi del Romeo tradito.
E’ noto sin dai tempi di Adamo ed Eva: il confine tra passione e disprezzo è labile.
Il giovane inspira l’aria fresca di una serata di metà novembre.
Senza esitazione, scrive, scrive, scrive.
Andare avanti è possibile, anche senza te.
La vita è unica, bisogna reagire alle avversità!
La lavagna pubblica appaga la fame di giustizia del Leopardi in erba.
Il mondo intero deve sapere: io ti amavo, perché sei fuggita?
Ti dimenticherò mai?
La denuncia liberatoria è pubblicata.
Per un attimo il dolore si attenua addolcito dal potere dello sfogo.
L’innamorato corre via soddisfatto.
Il muro imbrattato resta.
Un giovane, con la voce rotta dall’emozione, recita la poesia Joyce Lussu.
In chiesa cala il silenzio.
Un paio di scarpette rosse
C’è un paio di scarpette rosse
numero ventiquattro
quasi nuove:
sulla suola interna si vede ancora la marca di fabbrica
“Schulze Monaco”.
C’è un paio di scarpette rosse
in cima a un mucchio di scarpette infantili
a Buckenwald
erano di un bambino di tre anni e mezzo
chi sa di che colore erano gli occhi
bruciati nei forni
ma il suo pianto lo possiamo immaginare
si sa come piangono i bambini
anche i suoi piedini li possiamo immaginare
scarpa numero ventiquattro
per l’ eternità
perché i piedini dei bambini morti non crescono.
C’è un paio di scarpette rosse
a Buckenwald
quasi nuove
perché i piedini dei bambini morti
non consumano le suole.Joyce Lussu
Osservo i bambini, il loro sguardo ingenuo in un mondo folle.
Ignorano chi sia Hitler, la pazzia del nazismo, l’orrore che si cela dietro i campi di concentramento.
Il giovane termina.
Dal piccolo coro della chiesa partono le note di La vita è bella per spezzare l’emozione di quelle parole così toccanti ed assurde.
Ricordiamo il giorno della memoria per annientare i «mostri» di domani.
Commossi, andiamo via.
Il rito prevede l’attesa.
Mezz’ora, un’ora, non è possibile quantificare lo stop.
Nel salone del barbiere napoletano il tempo perde di significato.
Fuori, la solita, isterica vita continua alla normale assurda velocità; dentro, il ritmo rallenta fino a fermarsi.
L’atmosfera distesa ti riporta a quando eri bambino e tuo padre ti accompagnava dal suo barbiere (che poi diventerà il tuo).
Seduto sulla poltrona davanti all’immagine riflessa allo specchio, prigioniero del candido asciugamano bianco, chiudi gli occhi e ti rilassi.
«Il solito taglio?».
«Sì, il solito, grazie».
L’attesa incentiva la discussione sul calcio e sul buon cibo: i piaceri della vita, il motore dell’ottimismo!
Dal barbiere napoletano il cliente viene coccolato.
Pura evasione, come al cinema, e l’attore protagonista sei tu.
Il ragazzo del bar porta quattro caffè fumanti.
«Prego dotto’ servitevi pure».
«Grazie, l’ho appena bevuto. Comunque mi chiamo Mario» replico dubbioso.
«Come volete dotto’», il giovane consegna il vassoio con le tazzine calde e vola via.
Eppure, i barbieri non sono tutti uguali.
Sono a Milano in trasferta-lavoro.
Mi reco dal coiffeur nei pressi dell’ufficio, il locale e vuoto ed il professionista sosta all’ingresso.
Entro ma vengo bloccato sull’uscio da una domanda sconvolgente: «ha prenotato?».
E, nonostante il locale vuoto, non mi concede il taglio.
(da notare: la medesima esperienza mi capitò a Siena).
Non ho dubbi: il barbiere napoletano è il miglior barbiere d’Italia
Se ami il mare e desideri leggere una storia che intrecci il dramma dei migranti con l’amore, sei nel libro giusto.
Perché Lampedusa può essere una prigione per chi ci nasce e la terra promessa per chi sogna una vita diversa da guerra e violenza.
Dipende dal destino quale prospettiva ti regala.
Salvatore è nato e vive nella piccola isola siciliana.
Giulia trascorre ogni estate nella casa dei genitori, nativi di Lampedusa ed emigrati a Milano per inseguire lavoro e successo.
Tra loro l’amore, le vacanze troppo brevi, il distacco, la distanza, sentimenti difficili da vivere, l’attesa per la prossima estate, lettere rosa con promesse infinite.
Una mattina in spiaggia, la visione di un barcone stracolmo di uomini, donne e bambini – persone diamine! – in balia delle onde segnerà la vita dei due giovani.
Quell’immagine al quale il mondo intero ben presto si assueferà, sconvolge le coscienze di Salvatore e Giulia unendo le loro anime con un filo invisibile.
Per sempre.
Le tartarughe tornano sempre di Enzo G. Napolillo è fresco come un tuffo nel mare blu di Lampedusa.
Attuale, ci ricorda che i migranti sono persone e come tali meritano la nostra attenzione.
Persone, non dati statistici o “casi” da risolvere.
Un romanzo ed una denuncia raccontata attraverso gli occhi di due personaggi che ricorderemo nel tempo, Giulia e Salvatore.
Perché leggere «Le tartarughe tornano sempre»?
Perché emoziona.
Una folata di vento gelido mi pugnala alla schiena: raddrizzo istintivamente le spalle e mi irrigidisco sulla sedia come uno stoccafisso norvegese.
Il blitz è riuscito, un soffio di vita passa tra lo spiraglio della finestra e taglia l’aria pesante presente nell’open space.
Sorrido d’avanti al monitor mentre continuo a digitare linee di codice.
Il conflitto si consuma in tutti gli uffici del globo e vede contrapposte le due fazioni storiche: i draghi (la maggioranza) ed i pinguini (la minoranza alla quale appartengo con orgoglio)
Combattono per preservarsi in luoghi perennemente surriscaldati: con la sciarpa al collo anche in ufficio, necessitano del calore per sopravvivere e guardano con terrore chi si avvicina alla finestra.
Incapaci di comprendere le ragioni altrui, sono i custodi dell’aria viziata.
Il panico li guida, spaventati da un possibile raffreddore etichettano chi la pensa diversamente come «intolleranti».
Sognano un ambiente semipolare convinti che il freddo aiuti a restar freschi e concentrati: necessitano del cambio d’aria continuo.
Cacciati dai colleghi, condannati con processi sommari, marchiati come i peggiori tra i lamentosi, perlopiù inascoltati anche se le loro ragioni sono sostenute da teorie scientifiche acclamate: cambiare aria in ufficio ogni due ore fa bene a tutti.
In inverno, nell’open space, la minoranza viene sopraffatta quotidianamente.
Spiragli zero, aperture sigillate, atmosfera ferma.
Nessun compromesso, niente onore delle armi: ai pinguini non resta che attendere tempi migliori.
E’ l’ora dello snack: biscotti per i golosi, yogourt per i salutisti.
I profumi diffusi nell’unico grande ufficio ci preparano per il pranzo.
L’antipasto è servito.
Cuffiette, musica, testa nel monitor, ognuno cerca l’isolamento dal brusio di sottofondo incessante.
Siamo in pieno inverno anche se, per la guerra sopra descritta, nell’open space la temperatura percepita è quasi trentotto gradi nonostante fuori la colonnina di mercurio non superi i dieci.
L’open space è un’unica grande piazza dove la privacy è un optional: viviamo tutti insieme per otto, intense ore lavorative e come ogni luogo ove la convivenza è forzata, la sopportazione è virtù rara.
Colleghi, la vita nell’open space è dura: che tu sia un drago o un pinguino, sii tollerante.
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Mario Monfrecola, il webmonster.
Sono nato a Napoli nel 1970, laureato in Matematica ed Informatico di professione, da sempre appassionato di tecnologia ed Internet, di sport e di ecologia, di cinema e libri ...
Mi piace mischiare le mie passioni e da questi minestroni nascono progetti come faCCebook.eu
Alla continua ricerca di «mostri» da denunciare.
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