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Tom Hanks, 17 storie brevi e quella passione per le vecchie macchine da scrivere [RECENSIONE]

“Tipi non comuni” di Tom Hanks: breve (non) è bello

Le storie brevi sono un’arma a doppio taglio: presentano l’indubbio beneficio dell’immediatezza ma lo svantaggio dell’incompiutezza.

Non fa eccezione Tipi non comuni, del poliedrico Tom Hanks.
Diciassette coincisi racconti con un un unico filo conduttore: il ticchettio obsoleto e affascinante di una macchina per scrivere.

Per dirla tutta, non amo i racconti brevi – dunque il giudizio del sottoscritto è palesemente influenzato dalla limitatezza della trama.
Nemmeno il tempo di conoscere il personaggio, approfondire la psiche degli interlocutori, scoprire gli scheletri negli armadi, amare i sogni ed emozionarsi nel mondo inventato dallo scrittore che … zac!
La scure della stringatezza tronca il finale.

E, con l’amaro in bocca – ed il ticchettio della macchina per scrivere in sottofondo – siamo costretti a voltare pagina.
Iniziamo una nuova, breve avventura con i pensieri imprigionati nei dubbi e lacune lasciati per strada.

"Tipi non comuni", di Tom Hanks: la mia recensione

Tom Hanks è (anche) un bravo scrittore?

Concordo: Tom Hanks è un attore straordinario (leggi: eccedente i limiti del normale o del comune, con significati che si determinano nel senso di un’eccezionalità rispetto alla prassi o all’ordine consueto).

E’ anche un uomo dall’aspetto cordiale, simpatico e gentile.
Un uomo pieno di talento, non vi è dubbio.

Ma, nonostante tutto, sospendo il giudizio sul Tom Hanks scrittore.
Lo aspetto con una prova più impegnativa, un vero romanzo dalla trama significativa, un’opera che si possa pesare per qualità e quantità.

Va bene anche un bel libro nato dal ticchettio della sua amata, vecchia, obsoleta macchina per scrivere.
Ma, per cortesia, privo d storie brevi.

 

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La dura vita del cameraman: dietro le quinte del convegno «Salute e benessere» [VIDEO]

Io, cameraman per passione

A volte mi regalo un cameo, è raro ma succede.
Accade quando l’evento mi coinvolge.
Perlopiù resto dietro la videocamera, nascosto dai flash e dalle condivisioni social.

Non amo le luci della ribalta.
Amo, invece, riprendere gli altri e renderli attori protagonisti.

Registro le scene di un film personale, immagini accompagnate dalla giusta colonna sonora, da rivedere dopo qualche tempo col sorriso sulle labbra.

Rivedere non per nostalgia.
Rivedere per riprovare quel sano sentimento che ti fa pensare: «però, sono riuscito nell’impresa».

La dura vita del cameraman: dietro le quinte del convegno «Salute e benessere»

Al convegno BeTime sull’alimentazione

Il convegno La prima prevenzione è a tavola organizzato da BeTime, l’Università del tempo libero, merita la dovuta attenzione.

Dunque, accetto con piacere l’invito.
Armato di videocamera, riprendo gli esperti, registro le riflessioni della platea.

Un dibattito su alimentazione e salute.
Argomenti interessanti, la serata è ben spesa.

Il cameraman, il regista ed il montatore

La sera, a casa, scarico i filmati sul computer.
Con calma, rivedo ogni ripresa.
Come sempre, non sono pienamente soddisfatto del lavoro.
E’ sfuggito quel fotogramma, una scena risulta mossa, manca una frase che avrei voluto inserire.

Il regista che vive dentro di me, è sempre molto critico con il cameraman.

Inizio il montaggio.
Elimino le scene morte, taglio gli interventi lunghi, cerco di dare spazio ai presenti.
Nel film, ognuno merita una parte.
Infine, scelgo la colonna sonora – elemento fondamentale per il successo del video.

Dopo un paio di ore, creo un videoclip di due minuti.
Per il sottoscritto, la giusta durata per mostrare tutto senza annoiare lo spettatore.

A voi il risultato. 


 


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«La casa sopra i portici», Carlo Verdone si racconta (per davvero) [RECENSIONE]

«La casa sopra i portici», un libro di Carlo Verdone

Leggo La casa sopra i portici con la netta sensazione di ascoltare la voce di Carlo Verdone narrare le vicende descritte nel libro.

Tra le righe, emerge quel modo d’essere  visto mille volte nei suoi film – ad esempio, il tipico gesto spazientito di Verdone che allarga le braccia per protestare e poi accetta bonariamente la richiesta assurda del momento. 

Puntalizzo: La casa sopra i portici non è una autobiografia.
E’, piuttosto, un sentito saluto alla casa dove è vissuta la famiglia Verdone e dove Carlo lascia il periodo più felice della sua vita: l’infanzia e l’adolescenza.

La casa sopra i portici, un libro di Carlo Verdone

Perché leggere «La casa sopra i portici»

Se hai amato Bianco, Rosso e Verdone ed hai riso (amaro) con Furio, ti incuriosirà conoscere lo zio pedante e logorroico che ha ispirato il famoso personaggio.

Perché il libro, oltre a raccontare l’amore smisurato di Carlo per i genitori, rivela anche mille piccoli segreti professionali.

Le paure del giovane attore, gli esordi, i grandi volti del cinema che da sempre frequentano il salotto di casa (il padre Mario è stato un importante critico cinematografico ed uomo di cultura), il rapporto con la famiglia De Sica (la sorella Silvia è la moglie di Christian), la timidezza del primo amore, il rapporto con l’altro sesso, l’incontro con Alberto Sordi, le telefonate surreali con Federico Fellini

Furio, il celebre personaggio di Bianco, rosso e Verdone ispirato da uno zio

Il libro, un tributo all’infanzia di Verdone

La casa sopra i portici non ha nessuna pretesa letteraria, è un libro di pura evasione che ci ricorda una Roma (e una Italia) che, oggi, non esiste più.

L’attore ha il merito di raccontare con la spontaneità che lo contraddistingue, aspetti della propria vita privata – alcuni celebri, molti inediti – con leggerezza (alcuni episodi risultano davvero esileranti).

L’ultima pagina è il ciak finale di un film ben riuscito.
Dal libro, risultano chiare le emozioni di Carlo Verdone, per un’infanzia felice, in una famiglia ricca d’amore, in una casa speciale: la casa sopra i portici.

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«L’immaginazione? E’ un viaggio nel tempo», Luciano Esposito, scrittore di nuovi mondi [INTERVISTA]

L’ispirazione secondo Luciano Esposito

Scavo ancora nei meandri della fantasia.
Nella mente dello scrittore, dove nasce la scintilla.

Per carpire quel momento magico nel quale un pensiero diviene un’idea felice.

L’ispirazione: da dove nasce? L’ispirazione: chi la possiede?

L’ispirazione nasce dal sentimento, quindi ce l’abbiamo tutti, dobbiamo solo imparare a riconoscerla e a sprigionarla per darle voce.
In un qualsiasi momento puoi vedere, ascoltare, pensare, qualcosa che ti fa dire: Sì, questa è un’idea!
A quel punto devi subito annotarla da qualche parte per catturarla (io di solito uso il blocco note dello smartphone), perché le idee sono evanescenti e se non le afferri al volo sfumano via come nebbia al sole.
Mi piace pensare che l’ispirazione rappresenti un viaggio nel tempo, nel senso che ciascun pensiero illuminante è figlio di tutto ciò che si è vissuto fino a quel momento, di qualcosa che è venuta prima e sta diventando presente; è quindi un processo creativo che può portarti avanti, nel futuro, in un posto in cui bisognerebbe cercare di restare il più a lungo possibile.

La parola a Luciano Esposito, autore di Abbi fortuna e dormi, per comprendere dove e come sia nato il suo primo libro.

Per conoscere colui che è dotato della scintilla.

«L'ispirazione? E' un viaggio nel tempo» (Luciano Esposito, autore di "Abbi fortuna e dormi"

Abbi fortuna e dormi, il primo libro di Luciano Esposito

D: Quel giorno alla Ubik di Napoli, io c’ero.
Era evidente la tua emozione nel presentare al pubblico  Abbi fortuna e dormi, la tua prima opera.
Oggi, a distanza di tempo, che ricordi hai di quel momento speciale?
R: Ho un meraviglioso ricordo, vivido e indelebile.
Venerdì 24 febbraio 2017, Ore 18:00.
Fino a quel momento non avevo mai presentato un libro e quello è stato il modo migliore per festeggiare il mio compleanno.
Per me un gran motivo di soddisfazione ritrovarmi tra le frizzanti parole del prof. Gerardo Salvadori, il profondo intervento dello scrittore Sergio Saggese, le emozionanti letture animate dal prof. Michele Farina e le magiche esecuzioni live con chitarra classica del Maestro Federico Quercia.
Ricordo ancora uno ad uno tutti i partecipanti, parenti e amici insieme a persone mai viste prima.
Grazie a tutti!

Ad esser sincero, all’inizio ero un po’ teso perché non avevamo steso alcun programma per la serata, a parte la scaletta delle letture di Michele.
Passati i primi momenti d’emozione, mi sono sciolto, le parole sono uscite fluide dalla mia bocca senza stare troppo a pensarle.
Fosse stato per me, avrei continuato per ore ed ore.

Colgo l’occasione per ringraziare ancora una volta la prof.ssa Ermelinda Federico (che ci guarda da lassù) che ha creduto in me fin dall’inizio, lo scrittore Nando Vitali per avermi sostenuto col suo meraviglioso modo di pensare, la Robin Edizioni che mi ha offerto la possibilità di pubblicare il mio romanzo e la libreria Ubik che ci ha ospitati.

Sento infine di ringraziare i miei genitori, che mi hanno sopportato e supportato durante le innumerevoli revisioni del testo.

D: Luciano, Abbi fortuna e dormi era da sempre nei meandri della tua mente.
Un giorno speciale hai trasformato l’ispirazione in trama.
Come è nata la scintilla del tuo primo libro?
R: Le scintille sono state varie.
La prima è stata l’idea centrale intorno a cui la trama si svolge, un sogno che avevo in testa da tempo, tra me e me non finivo mai di dirmi:
prima o poi dovrò scriverne.
La seconda scintilla è scoccata con la nascita di mia figlia.
Le lunghe attese in clinica prima del parto hanno alimentato la mia ispirazione.

Posso solo dire che il giorno della venuta al mondo della mia bambina è stato quel momento speciale che ha trasformato l’ispirazione in trama.

Abbi fortuna e dormi  è una storia incentrata sulla scintilla di un sentimento puro di vero amore da parte di un uomo nei confronti di due donne.
Non stiamo parlando di un volgare tradimento ma di
polifedeltà, termine (coniato da Sergio Saggese) che sintetizza perfettamente in una parola la trama del mio racconto.
Infine, a trasformare la trama in libro, ci ha pensato la scintilla della
Robin Edizioni.  

Abbi fortuna e dormi, il primo libro di Luciano Esposito

«La creatività massima nasce dai sogni»

D: Tu scrivi storie, crei racconti mai narrati fino ad oggi.
Storie nate dalla tua fantasia, l’intreccio dei pensieri irrazionali con emozioni ataviche.
Da dove nasce quel fulmine che trasforma una riflessione in una trama?
Quel momento magico che ti obbliga a buttar fuori e mettere nero su bianco le parole imprigionate nel tuo cervello?
R: Amo scrivere sia racconti brevi che scritti più lunghi.
Quasi sempre i primi sono ispirati a fatti realmente accaduti o piccole storie derivanti da esperienze vissute durante la vita di tutti i giorni.
In uno scritto breve riversi su carta, in poco tempo (qualche ora al massimo), una serie di emozioni, argomentazioni che logicamente organizzate possono suscitare una riflessione od un sorriso.
Diversamente, in un romanzo bisogna tener sotto controllo la storia, i personaggi, il modo di esprimersi, i tempi, in maniera tale che ogni parola sia giustificata e alla fine tutto abbia un senso.
Quando mi dedico ad uno scritto breve, ogni momento è buono: giorno, notte, in treno, all’Autogrill, al mare, in montagna.
Al contrario, ai romanzi mi ci dedico prevalentemente a casa, durante i week end.

D: Luciano, l’ispirazione nasce dal mondo che ti circonda?
Quale è il segreto per alimentare l’immaginazione?
R: L’immaginazione è una creatura che vive dentro la nostra anima, io la nutro con pochi ingredienti naturali: viaggi, libri e film.
A volte mi capita di trarre un’ispirazione inconscia dai sogni, sono loro a suggerirmi lo spunto per alcune stesure letterarie, lì raggiungo il mio picco massimo di creatività.
Dimenticavo la vita!
Tutte le esperienze vissute, belle o brutte che siano, alla fine diventano ricordi su cui si basano le fondamenta dell’immaginazione.

"Ogni momento + buono per scrivere", (Luciano Esposito)

I progetti futuri: il secondo, atteso libro

D: Luciano, ci hai già rilasciato una sincera ed interessante intervista nella quale abbiamo affrontato vari temi.
Parliamo, invece, del prossimo futuro: a quale opera stai lavorando?
Nuovi progetti?
R: Essendo architetto, ho diversi progetti in cantiere (risatina).
Riferendomi alla produzione letteraria, sono in procinto di ultimare il mio nuovo romanzo, completamente diverso dal precedente per genere, struttura e stile narrativo.
Questa volta ho affrontato uno dei temi più insidiosi e tenebrosi della riflessione umana: la morte.
Ho cercato di esorcizzarla a modo mio attraverso gli occhi di un vecchio impresario.
La storia si svolge in un remoto paesino di montagna.
Per il momento non aggiungo altro, posso solo dire che non mancheranno sorprese e un gran finale.

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«La scrittura è una necessità»

D: Luciano, prima di chiudere, condivido una riflessione di Paola: chi scrive lo fa per se stesso o per gli altri?
R: Anche se la scrittura è un modo per esternare al mondo qualcosa di noi, sono convinto che chi scrive lo fa per sé stesso.
Mettere alcune storie nero su bianco è, per me, una necessità.
Non c’entrano fama, soldi o ritorni d’immagine, è un semplice bisogno naturale, come mangiare, bere o respirare.
Una cosa che non ha nulla a che vedere con la razionalità, ma riguarda il cuore, l’istinto, la passione.
Scrivere, nel mio caso, ha anche un effetto rilassante perché mi permette di mettere da parte i pensieri pesanti e regalarmi alcune ore di pace e serenità.
Perchè creare con le parole significa inventare nuovi mondi, ed io, in quei mondi, mi ci perdo puntualmente …

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7 minuti, la distanza tra flessibilità e precariato in un film di Michele Placido [RECENSIONE]

7 minuti, un film di Michele Placido (2016)

Quanto è distante la flessibilità dal precariato?
7 minuti, il film di Michele Placido, fornisce una possibile misura.

Il regista pone una riflessione di estrema attualità: rinunciare ad un diritto per conservare il posto di lavoro, è – per alcuni – un ricatto, per altri un giusto compromesso.

Dipende, da che dipende?
Da che punto guardi il mondo tutto dipende

7 minuti, un film di Michele Placido (2016)

Flessibilità, un sacrificio necessario?

“Che siamo disposte a fare per lavorare?
Tutto siamo disposte a fare”
(Greta (Ambra Angiolini)

Se credi che oggi – nel ventunesimo secolo – la flessibilità sia un sacrificio necessario per continuare a lavorare, accetti (tuo malgrado) la rinuncia imposta dal datore di lavoro.

Se, al contrario, sei convinto che privarsi di un diritto rappresenti il primo passo verso la totale cancellazione delle norme a tutela dei dipendenti, allora ti opponi con tutte le tue energie.

E questo accade nel film di Michele Placido: le rappresentanti delle lavoratrici dibattono con posizioni opposte.
Accettare la proposta/ricatto dei nuovi vertici aziendali oppure contrastare la dirigenza per non arretrare?

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I nostri 7 minuti

Se scaviamo nella nostre coscienze di lavoratori, possiamo affermare – senza ombra di dubbio – che ogni dipendente (privato) ha affrontato, prima o poi, i famigerati 7 minuti del film.

A partire dal sottoscritto (i nostri 7 minuti sono conservati nell’ebook gratuito Gli ultimi giorni di HP Pozzuoli).

Dunque, è chiaro a tutti: la distanza tra flessibilità e precariato si ridurrà sempre più nel prossimo futuro.
Sbucheranno dal cilindro politico nuove espressioni, appellativi moderni e termini anglosassoni pronti a nascondere l’amara verità: se vuoi lavorare, rinuncia ai tuoi diritti.

Subire o resistere?
Dipende, da che dipende?

Dalla propria dignità.


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Passengers, quel labile confine tra amore ed egoismo

Passengers, un film di fantascienza del 2016

Solo.
Intorno a te, il silenzio assordante dell’Universo.

Sei l’unico essere vivente sveglio, prigioniero di un’astronave ultra moderna con altri cinquemila passeggeri ibernati.
Un villaggio turistico iper-tecnologico che viaggia alla velocità della luce verso il nuovo mondo, una colonia da fondare distante milioni di chilometri dalla Terra.

Ma per ricominciare una seconda vita, però, occorre viaggiare per altri novanta anni.

Purtroppo, un imprevisto ti ha scongelato dalla siesta e mentre gli altri cinquemila passeggeri si godono il pisolino programmato, tu sei l’unico uomo con gli occhi spalancati.

Solo nell’Universo.
Pronto ad impazzire.

Passengers, un film di fantascienza sul labile confine tra amore ed egoismo

La forza della solitudine

Dunque, che fare?

Svegliare qualcuno dal letargo, costringerlo alla prigionia forzata nell’astronave, rubargli la vita per invecchiare insieme, da soli nell’Universo – senza mai raggiungere la nuova Terra?

Forti dei nostri leali sentimenti, al posto dell’ibernato insonne, come ci comporteremmo?

Dal comodo divano del salotto, col telecomando tra le mani e l’atmosfera di casa a proteggerci, ci indigniamo al solo pensiero di condannare un altro essere umano pur di soddisfare il nostro (insano) egoismo.

Ma la solitudine è un «mostro» che morde i polpacci.

Al nostro solitario eroe spaziale cresce la barba e la disperazione, tenta il suicidio pur di non ammazzare un altro passeggero.
Ma nulla può contro la voglia di sopravvivere.

quando affoghi, ti tiro dietro sempre qualcun altro

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Passengeres, il finale pirotecnico

Alcuni misteri restano: perché il nostro Lupo Solitario, tra i cinquemila avventurieri, sceglie proprio Lei, scrittrice in carriera?

Non era più saggio scongelare un medico, un pilota o un pizzaiolo?

E poi, al nostro eroe spaziale, piace vincere facile: in assenza di concorrenza, chi vuoi che frequenti la bionda?
Trattasi di una disavventura nell’Universo o di una romantica crociera tra i Pianeti?

Come finisce Passengers?
Nell’unico, possibile, scontato, inatteso modo: egoismo ed amore non sono poi così distanti come immaginiamo.

Nemmeno nel lontano futuro.

Jennifer Lawrence, scrittrice in Passengers


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Totò Genio, la mostra a San Domenico Maggiore [FOTO]

Dentro Totò

La storia d’amore tra Totò e Franca Faldini è il momento più coinvolgente.
Conoscere le debolezze umane del Principe della risata aggiunge ulteriore grandezza ad un mito del cinema.

«Dentro Totò» – a San Domenico Maggiore, nel centro storico di Napoli – è una delle tre mostre dedicate ad Antonio de Curtis ed il sottoscritto, armato di entusiasmo e smartphone, non può mancare.

Totò Genio, la mostra a San Domenico Maggiore

I suoi film, la nostra infanzia

Acquisto il mini abbonamento (12€ per le tre mostre, 6€ per la singola visita), sicuro di completare il giro al Maschio Angioino (“Genio tra i geni”) e Palazzo Reale (“Totò, che spettacolo!”).

Totò suscita ricordi, risate, momenti di gioia, riflessioni.
Pezzi di infanzia trascorsi con i suoi film, battute celebri divenute modi di dire quotidiani, duetti indimenticabili ripetuti tutt’ora.

La sera basta sintonizzarsi su uno dei tanti canali privati napoletani: di sicuro, qualcuno – o più! – trasmette «Totò Peppino e la malafemmina» 🙂
(e pensare che «nessuno mi ricorderà» era uno dei timori dell’artista napoletano).

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Totò Genio, le mille locandine

Le mille locandine esposte, raccontano l’iper produzione cinematografica di Totò.
Film famosi, pellicole immortali ma anche molti titoli a me ignoti.

Accanto al Principe della risata, nomi celebri: Vittorio De Sica, Sophia Loren, i De Filippo, Mario Castellani …
Mi arrendo: impossibile citarli tutti.

Totò Genio, le mille locandine

«Portatemi a Napoli»

Battute storiche, lettere, biglietti, la testimonianza dei registi e dei colleghi di lavoro, parti di sceneggiature e preventivi dei cast.
Un tuffo nel cinema in bianco e nero degli anni cinquanta.

E poi, le prime pagine dei giornali di quel 15 aprile del 1967, quando – a soli settant’anni – per un infarto, Totò si spegneva.
Le sue ultime parole: «Portatemi a Napoli».

«Mamma, stasera vediamo un film di Totò?».

La bimba, avrà sei o sette anni, aggrappata alla mano della donna, sussurra l’innocente desiderio.
Vado via soddisfatto: Napoli non dimenticherà mai il suo Principe della risata.

Totò Genio, la galleria fotografica


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Rocky V, polpettone a stelle e strisce o film capolavoro?

Rocky V, papà distratto

Tra un Apollo Creed prima avversario, poi amico-allenatore ed un reganiano «ti spiezzo in due», mi era sfuggito il Rocky-genitore-distratto.

Colmo la lacuna: becco Rocky V nello zapping serale mentre fuori impazza la tempesta.
Vento e pioggia, meteo perfetto per godersi un film dopo cena.

La stanchezza avanza, cerco trasmissioni leggere per non cadere tra le braccia di Morfeo nei successivi nove minuti.

Riconosco subito la musica, le note di Gonna fly now mi inchiodano sul divano.
Getto il telecomando, salgo sul ring ed all’ultimo fotogramma sono ancora arzillo.

Rocky V, film cult

Rocky V, l’ultima battaglia (da genitore)

Il regista indugia sugli occhi della tigre, lo sguardo cruento, la voce profonda di Ferruccio Amendola imprime la scena nella memoria.

Il vecchio, indomito Rocky combatte l’ultimo match contro Tommy Gunn, l’allievo traditore.
Per riconquistare il rapporto col figlio, trascurato per allenare il giovane boxer e rivivere, attraverso le vittorie del suo pupillo, la gloria passata.

Scena cult1: «Il mio ring è la strada»

Rocky accetta la sfida.
Non sul ring – come vorrebbe lo show business per speculare sul Campione mai dimenticato (anche se, il nostro eroe non naviga nell’oro).
Per strada, dove tutto è iniziato.

Il Rocky-papà vincerà la battaglia più importante?
Riconquistare la stima del figlio per essere un genitore attento e presente?

Scena cult2: «Toccami e ti denuncio»

Altra scena cult: il colpo del KO al «mostro».

Non può bastare una semplice minaccia di querela per fermare lo Stallone Italiano.
Un fendente ben assestato e la sanguisuga vola al tappeto.

Segue standing ovation del quartiere con benedizione del parroco, la sete di giustizia del pubblico è appagata.
Il provocatore è servito.

E’ proprio vero: il genitore è il mestiere più difficile del mondo.
Anche per Rocky Balboa 🙂


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Ciao zio Bud, gigante buono della nostra infanzia

Bud Spencer, il gigante buono

La (mia) generazione anni70 cresce con i sogni di E.T., le battaglie di Goldrake, i fagioli ed i pugni buoni di zio Bud.

Il ricordo è lontano: sul grande schermo, il volto cattivo ed il barbone nero di Bambino, la puzza degli abiti sudici, la polvere sollevata dal cavallo di Trinità che, pigro, trascina l’assonnato pistolero nel deserto.

Bud Spencer, i cazzotti buoni contro i bulli segnano la generazione anni 70

I ricordi di un bimbo anni 70

Siamo al cinema – tutta la famiglia, insieme ad altre mille famiglie – al fianco di Bud Spencer e Terence Hill per una scazzottata contro i prepotenti di turno.

L’emozione tira brutti scherzi, i ricordi tornano a galla.

Un flashback di “Lo chiamavano Trinità”?
Impossibile: nel 1970 ero un poppante.
Risale alla mente un fotogramma di “Continuavano a chiamarlo Trinità”?
Non credo: nel 1971 guardavo il mondo dalla culla.
Un ricordo di “Altrimenti ci arrabbiamo”?
Forse: nel 1974 viaggiavo nel carrozzino, la mia dune buggy.

L'indimenticabile dune buggy in Altrimenti ci arrabbiamo

I cazzotti per i cattivi (mai troppo cattivi)

Sotto le note incalzanti degli Oliver Onions, sul grande schermo di un cinema di Napoli (oggi chiuso), volano cazzotti buoni.

I cattivi, puniti e pentiti, non sono mai così cattivi: necessitano solo di una ripassata e quale metodo migliore di un pugno di zio Bud proprio al centro del testone del bullo ed una serie di padellate di Terence Hill per dileguare i tirapiedi del Capo?

Il cinema di ieri

Nessuna prenotazione, poltrone normali, niente aria condizionata, la sala gremita, il brusio continuo, il fumo delle sigarette, la torcia della maschera, cala il buio, inizia la magia, l’odore dei popcorn, la gioia di un bimbo al cinema con la sua famiglia.

Un dolce ricordo condensato nel tweet di Roberto Saviano (coetaneo del sottoscritto):

Terence Hill e Bud Spencer, film puliti

Film per tutta la famiglia, mai volgari, divertimento pulito e assicurato. il senso di giustizia raccontato con leggerezza, a suon di risse con i nemici sconfitti che si rialzano, le pistole mai usate, il gigante buono in difesa dei più deboli.

E tanto buon umore.


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Grazie zio Bud

La notizia giunge via Whatsapp, segno dei tempi moderni.

Il dispiacere pervade l’intera mattinata, sento di aver perso un vecchio amico.
Butto fuori la tristezza in queste righe scritte di getto.

Navigo in cerca di solidarietà e – come è giusto che sia – istante dopo instante, il web si riempe di ricordi, citazioni, video, foto, post commossi, ringraziamenti di gente famosa e persone qualsiasi.

L’esercito di fans tripudia al suo Gigante Buono il doveroso riconoscimento perché la sua straordinaria vita – uomo integerrimo ed attore pulito – accompagni, attraverso i suoi ingenui e divertenti film, le future generazioni.

Come ha accompagnato noi.
Grazie zio Bud. 


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New York, quanto costa prendere un taxi (giallo)?

A New York, in taxi

New York, prima o poi, salirò sul taxi.
Intendo i taxi gialli resi famosi dalle mille pellicole hollywoodiane.

I taxi gialli che chiami urlando dal marciapiede combattendo contro la folla multicolore, manager e immigrati tutti di corsa alla ricerca dell’opportunità.

Con tenacia, guadagno spazio tra la calca, giungo a bordo strada, attendo qualche minuto finché tra il fiume di auto lungo la Fifth Avenue compare un puntino giallo.

Il taxi giallo da condividere

Ad attendere però non sono solo.
Anche una frenetica Jennifer Ariston in perenne ritardo, il posato Richard Gere nell’elegante completo scuro mentre impugna (col guanto, ovvio) una misteriosa valigetta 24ore ed una stravagante Cameron Diaz in abito da sposa, desiderano il mio stesso mezzo di trasporto.

Alzo la mano destra, mi sbraccio, urlo e sbraito fino a quando l’agognato taxi giallo rallenta, accosta e ci preleva.
Il taxi driver pachistano – immigrato di terza generazione – alla vista del bizzarro gruppo non batte ciglio: a New York tutto è possibile.

Viaggio in compagnia degli illustri ospiti perché nella Grande Mela condividere il taxi per dividere le spese è consuetudine.

Dopo il lavoro, al karaoke (sempre in taxi)

Dopo una stressantissima giornata di duro lavoro, la sera – distrutto dalla fatica – trovo le energie per bere una birra in un locale di Manhattan pieno di altri giovani uomini e giovani donne in carriera.

Freschi e riposati nonostante le quattordici ore trascorse in ufficio, dietro un monitor, a servire clienti al ristorante italiano di Brooklyn o friggere patatine in un fast food del Bronx: il karaoke fortifica le amicizie ed incentiva le relazioni.

Fino a notte inoltrata quando un nuovo taxi giallo ci riporterà tutti a casa.

Solo con Jennifer Ariston, come in un film

Il taxi giallo rallenta, accosta, si ferma.
Scendo per primo.
Apro lo sportello: la sposa fugge, sull’altare l’attende un amore a nove zeri.
L’uomo d’affari non perde ulteriore tempo, paga la quota e svanisce nel maestoso Trump Building.

Restiamo io e Jennifer.
Da vecchio galantuomo, verso al taxi driver l’intera somma (più il 15% di mancia).
«Thanks».
Jennifer ringrazia, sorride e si dilegua con eleganza tra la folla newyorkese.

Come in film.
The End.


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Lo chiamavano Jeeg Robot, film d’amore e di speranza

Jeeg Robot ci ricorda l’amara verità

Una branco di iene affamato sogna il salto di qualità: da squallida banda della degradata periferia romana a boss della malavita nazionale.

L’inaudita violenza sbalordisce lo spettatore impreparato al Pulp fiction di borgata ma ha un indiscutibile merito: ci sbatte in faccia – casomai girassimo la faccia per non vedere – l’amara verità.

Intere fette della società vivono prive di qualsiasi valore etico ed aspirano a soldi, denaro, successo con ogni mezzo (illecito).
Lo Stato impotente osserva: droga, camorra, prostituzione, delitti efferati (uccidere un amico colpendolo col cellulare perché sbaglia l’acquisto «lo volevo nero, questo è bianco!»), conquistare il potere criminale dimostrando di essere il Capo con una lucida follia criminale.
Ad ogni costo.

Perchè vedere Lo chiamavano Jeeg Robot, film d'amore e di speranza

Jeeg Robot, film d’amore

Lo chiamavano Jeeg Robot è un film d’amore.
Nonostante il fango del Tevere, l’imbarbarimento dei personaggi, l’assenza di qualsiasi indizio di umanità nei protagonisti, il marcio non trionfa.

Perché la scintilla dell’amore può nascere anche nell’angolo più remoto dell’inferno metropolitano.

Un abbraccio tramuta gli sporchi destini di Enzo ed Alessia – lui caduto nel fiume romano inquinato dai fusti atomici acquista i superpoteri, lei cresciuta tra violenze e degrado si rifugia in un mondo di fantasia e crede in Jeeg Robot il Salvatore.

Un film raccontato come un fumetto dark, ogni fotogramma una denuncia per capire fin dove può sprofondare l’animo umano.
E risorgere.

corri ragazzo laggiù
vola tra lampi di blu
corri in aiuto di tutta la gente
dell’umanità


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Perché conviene essere un pendolare lumaca

Il film che si ripete ogni giorno (feriale)

Location: stazione centrale di Napoli.
Cast: migliaia di individui.

Trama
Un giorno feriale qualsiasi.
Spezzo la catena, rompo la routine e con uno sforzo mentale liberatorio mi fermo al centro della nuova galleria Piazza Garibaldi.

Alzo lo sguardo al cielo, stupito osservo un enorme stormo di uccelli virare compatto in una traiettoria serpentina per poi allontanarsi in un unico blocco.

Perso nella mia corsa quotidiana, un simile spettacolo della natura – fino ad oggi – non l’avevo mai carpito.

Il percorso scandito dal tempo

L’esercito dei pendolari continua indifferente la folle corsa, treni che non prevedono fermate intermedie.
Alcuni automi sfrecciano a pochi centimetri, mi urtano e continuano il viaggio isolati nelle cuffiette e nei loro pensieri.

«Correre! Arrivare il prima possibile!», il flusso umano sembra obbedire ad ordini perentori diffusi dagli altoparlanti della stazione sotto forma di note musicali.

Come soldatini ubbidienti, i robot schizzano via indisturbati, una folla unisona che ogni giorno si ritrova agli stessi orari, con le medesime abitudini, con i minuti contati.

Al rientro, le stesse dinamiche ripetute in direzioni opposte.
Sempre con l’occhio attento sull’orologio-padrone.

La lumaca, sentinella del tempo nella stazione centrale di Napoli

La lumaca, sentinella del tempo nella stazione centrale di Napoli

La lumaca

L’abnorme lumaca verde, ferma nella galleria Piazza Garibaldi, contrasta con forza l’andirivieni continuo dei pendolari in fuga.
Immobile, osserva il flusso umano in perenne movimento.

Col distacco dei giusti, chiede: «perché correte?»
La riflessione, però, resta inascoltata di fronte all’indifferenza dei passanti.
«Rallentate!», urla la sentinella del tempo che scappa via.

Ma i pendolari non possono frenare, devono proseguire.

Altre piccole lumache colorate lentamente si arrampicano lungo le travi e – piano piano – raggiungono il tetto trasparente per osservare gli stormi di uccelli.

Avanzano senza stress, in cerca della libertà che i pendolari sembrano aver smarrito nei meandri della stazione.


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