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Tag: Italia (Page 1 of 4)

Beppe Bergomi: perché leggere la sua biografia [RECENSIONE]

I (veri) valori di Beppe Bergomi, lo zio

Bella zio. Il romanzo di formazione di Beppe Bergomi scritto da Andrea Vitali, racconta un sogno realizzato.
Il sogno di un bimbo di Settala, un paesino a pochi chilometri da Milano.

Siamo negli anni 70, infanzia felice, famiglia perbene, sani principi e tanta voglia di giocare a calcio.

E così. tra le marachelle del piccolo Beppe (sempre educato, sin dalla tenera età), la polvere dei campi dell’oratorio, le pedalate nelle cascine milanesi, gli esordi nella squadra del paese, la poca passione per la scuola, i primi tornei, entriamo a far parte della famiglia Bergomi.

Un nucleo unito intorno al padre e lo zio soci nell’autorimessa di famiglia, la madre – silenziosa e presente, il fratellone Carlo protettivo e primo tifoso del futuro Campione del Mondo.

Bella zio. Il romanzo di formazione di Beppe Bergomi [RECENSIONE]

Una biografia diversa e profonda

Aneddoti, confidenze, riflessioni: Bella zio sorvola (volontariamente) partite, competizione, risultati.
Il bravo Andrea Vitali, invece, approfondisce la cultura dello sport che da sempre caratterizza un vero atleta.

Ecco la forza di Bella zio, una biografia diversa e profonda, con un esplicito significato: un sogno lo realizzi solo se ci credi, ti impegni al massimo, lo costruisci allenamento dopo allenamento, rispetti l’avversario.
Regole di sport, regole di Vita.

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Per chi conosce il Bergomi telecronista

Un’osservazione è necessaria: risulta quasi impossibile per chi – come il sottoscritto – conosce il Bergomi telecronista, associare l’eleganza del racconto con la voce del protagonista.

E non perché l’ex giocatore sia incapace di utilizzare un linguaggio forbito.
Il motivo è un altro: Andrea Vitali è bravissimo.
Trovo la forma utilizzata dallo scrittore davvero elegante, impossibile da collegare alla narrazione in prima persona del giovane Bergomi.

La definirei una innocente dissonanza letteraria.
Oppure, quella naturale discrepanza tra un dolce ricordo e la realtà.
Proprio come nei sogni.

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Salone del libro di Torino, l’altra faccia: non solo i fascisti rimangono fuori [DENUNCIA]

Salone del libro di Torino: la testimonianza

Il Salone del libro di Torino si è concluso.
Su tutte le testate, cartacee e non, articoli che lo esaltano, raccontandone gli eventi, i personaggi, le code per i firmacopie.
Circa 148.000 presenze.
Più della scorsa edizione, che pure è stata un successo inaspettato.
Grandi nomi, non solo della letteratura, nazionali ed internazionali.

C’ero anch’io.

Sono una persona con difficoltà motorie.
Senza entrare nel dettaglio, cammino con fatica.

148 passi per me sono come per gli altri 148.000 passi.
Come i visitatori del Salone.

Salone del libro di Torino: la denuncia di una lettrice

Razzismo al Salone del libro di Torino: la denuncia

Sabato 10 maggio mi presento al controllo di sicurezza del Lingotto.
Chiedo che mi venga data una sedia a rotelle.

Lo scorso anno, su suggerimento di un’amica che mi aveva accompagnato, l’avevo richiesta e, nonostante la mia resistenza psicologica, ne avevo verificato la necessità.

Il responsabile della sicurezza chiama gli addetti.
Dopo circa dieci minuti arriva finalmente una persona con la tanto agognata sedia a rotelle.
Mi guarda, perplesso.
Mi domanda come mi sento.
Gli rispondo che mi sento bene, perplessa.
Mi dice che se non sto male non può darmi la sedia.
Provato a oppormi.
A fare notare che nell’area di accesso al Lingotto sono presenti ben cinque ambulanze, e che se qualcuno si sentisse male sarebbe necessaria una barella non una sedia a rotelle.

Nulla, le disposizioni da lui ricevute, dicono diversamente.

«E il buon senso?» gli chiedo io.
«Qui si vive di regole» mi risponde, alludendo probabilmente al fatto che come meridionale sono incompatibile con la legge.
E mi lascia lì.

Le quasi due ore successive vedono l’alternarsi di responsabili di varie attività organizzative del Salone che si rimpallano il problema.

Dopo l’affermazione che il Salone non dispone di un servizio per le persone disabili ho richiesto, ottenendolo, l’intervento dei Carabinieri.
La sedia, alla fine, mi è arrivata.

Questo è stato il MIO Salone.

L’emozione di incontrare Luis Sepulveda, solo per fare un nome fra i tanti, non mi ha ripagato della mortificazione di essere costretta, ancora una volta, ad alzare la voce per affermare un mio diritto.

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Salone del libro di Torino: perchè?

Pubblico con sgomento e delusione la lettera giunta da una visitatrice dell’ultimo Salone del libro di Torino.
Della veridicità dell’episodio raccontato, ne ho la matematica certezza.

Alla lettrice la nostra solidarietà.
Al Salone del libro, invece, chiediamo prima le necessarie spiegazioni e poi le dovute scuse.
Affinché il triste episodio non si ripeta mai più.
E il «mostro» del razzismo sia cancellato da un luogo tanto ricco di storia e cultura.


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Italia Ucraina, l’indignazione di Alberto Rimedio (dopo un mio tweet)

Alberto Rimedio ed il tweet di protesta

Al minuto ottantatrè di Italia Ucraina il telecronista RAI Alberto Rimedio ed il commentatore sportivo Antonio Di Gennaro censurano gli indegni cori della curva di Marassi.

I due giornalisti, senza appello, bocciano l’assurdo comportamento di una fetta del pubblico genovese.

Ad ogni rilancio del portiere ucraino, un gruppo di idioti, urla a squarciagola l’indicibile epiteto già sentito in molti altri stadi italiani.

La condanna giunge dopo gli innumerevoli messaggi di indignazione via twitter.
Tra i tanti, anche il suddetto cinguettio del sottoscritto.

Alberto Rimedio, il telecronista RAI indignato dai cori della curva

Cultura sportiva, questa sconosciuta

A conferma del raggiungimento del mio tweet, Alberto Rimedio evidenzia un giusto passaggio: «amichevole o partita ufficiale non c’è differenza».
In effetti, il cronista ha perfettamente ragione e corregge una imprecisione del messaggio scritto sull’onda dell’emozione.

L’insulto risulta ancora più grave per la presenza delle tante scuole calcio sugli spalti di Marassi.
Quali insegnamenti mostriamo ai baby calciatori?
Che esempio sportivo presentiamo ai giovani telespettatori?

Denigrare l’avversario con un coro divenuto «normale» in molti stadi è proprio insopportabile.
Ma, purtroppo, è una triste normalità italiana.
Basta guardare le partite della SerieA ed ascoltare l’urlo della curva al rilancio del portiere avversario.

Ricordavo un romantico «volaaaa» per accompagnare il pallone calciato con forza dal portiere.
Oggi, invece, un volgare insulto gridato da una parte dello stadio cancella e sporca anche quel volo magico.

Forse, noi che guardiamo quella palla viaggiare in cielo, nella sua fantasiosa traiettoria, dall’area al centrocampo in attesa che atterri tra i piedi dei nostri giocatori, siamo anacronistici ingenui?

No, mi dispiace.
Non confondiamo la realtà.
Sono quegli idioti che urlano oscenità i veri «mostri».

Un sincero grazie ad Alberto Rimedio per aver dato voce alla nostra indignazione.


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Matera, l’unica provincia italiana senza treno: perchè?

FS: a Matera? In autobus

«Torno in autobus».
Per anni ho lavorato con una collega lucana.
Il venerdì, per raggiungere la famiglia in provincia di Potenza, non aveva alternativa all’autobus.

Perché ancora oggi – nel ventunesimo secolo – raggiungere la Basilicata in treno, è impossibile.

Eppure, ammetto di non essermi mai scandalizzato da quel rassegnato “torno in autobus”.

Suona normale: vivi in Basilicata, non hai diritto ai treni.

Come reagirebbe, invece, un bolognese se, per raggiungere Milano, dovesse spezzare il viaggio in treno e proseguire con un pullman per altre tre ore?
Sarebbe (giustamente) indignato.

E allora, perché la medesima situazione, viene percepita come «regolare» ed accettata in Basilicata?

Da Napoli a Matera: in treno+autobus, 4 ore per 255km!

Fs Napoli-Matera: 255km in 4 ore!

Per curiosità, consulto il sito delle Ferrovie dello Stato Italiano.
Da Napoli, per arrivare a Matera, la soluzione proposta è:

  • partenza in treno alle ore 15.15
  • giungo alla stazione di Salerno alle 15.52 (dopo 37 minuti)
  • parto da Salerno alle 16.12 con l’autobus Freccialink LK017
  • arrivo alla stazione di Matera alle 19.07 dopo 2 ore e 55 minuti
  • costo del viaggio: 37€

Dunque, secondo le Ferrovie dello Stato, nel 2017, per percorrere 255 km impiego quasi 4 ore con il cambio treno-autobus!

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Matera, capitale della cultura 2019
(senza treno)

Nel 2019 Matera sarà la capitale della cultura.
Dal sito ufficiale:

“La giuria è stata colpita dall’entusiasmo e dalla innovatività caratterizzanti l’approccio artistico. Ci sono diversi progetti dotati del potenziale per attrarre un varia e più ampia audience europea, compresa la grande mostra Rinascimento del Mezzogiorno”.

Bene.
Tutti si pongono la medesima domanda: le masse di turisti provenienti da mezz’Europa, come giungeranno e quanto tempo impiegheranno per visitare questo angolo abbandonato d’Italia?

Due clic in Rete e scopri mille verità:

Così, dopo aver costruito la stazione, a Matera non sono arrivate né le rotaie né i cavi elettrici. Una spesa di oltre 500 miliardi di vecchie lire per 25 chilometri di rete ferroviaria inesistente.
(fonte: Tutti i treni (non) portano a Matera)

Seguono molteplice inchieste dallo stesso tenore: «investimento non conveniente», «assenza di mercato», «isolamento della città».

La Storia ci ricorda: Cristo si fermò ad Eboli.
Il presente, invece, l’amara verità: Matera, nel ventunesimo secolo, continua ad essere l’unica provincia italiana non raggiunta da nessun treno.

Tutt’oggi, non ho ancora capito il motivo e perché non si pone rimedio a questa vergognosa questione nazionale.
Perseverare, oltre ad essere diabolico, è inaccettabile.


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Ferragosto italiano, tre perché (ed una risposta)

Ferragosto, Italia ferma
(come negli anni sessanta)

  • Perché l’esercito dei lavoratori (pubblici e privati) è costretto ad andare in ferie ad agosto?
  • Perché, in Italia, ci comportiamo ancora come negli anni sessanta quando la grande industria regolava i ritmi degli operai?
  • Perché, mentre il lavoro diviene flessibile, la regolamentazione delle ferie resta rigida nel tempo?

Milioni di lavoratori in partenza, tutti nello stesso weekend.
Città vuote, negozi chiusi.
Chi resta, costretto a sobbarcarsi il lavoro dei colleghi vacanzieri.

Al supermercato, la cassiera stressata.
Alla Posta, l’impiegata scorbutica.
Al Pronto Soccorso, il dottore latitante.

Lavorare fino ad estate inoltrata risulta snervante: negli uffici, il nervosismo si taglia con un coltello, ognuno vorrebbe essere altrove.
Eppure, in Italia, continuiamo ad usufruire del periodo di ferie, tutti insieme appassionatamente.

Una regola anacronistica impone ai dipendenti il periodo nel quale spendere le vacanze: dai primi di agosto fino alla settimana dopo ferragosto.

Il ferragosto degli anni 60: le vacanze legate alla catena di montaggio

La regola della catena di montaggio

La piccola utilitaria carica di ogni ben di Dio, la famiglia compressa nella FIAT cinquecento.
Il viaggio è lungo, dal laborioso nord verso il profondo sud.
A salutare i parenti rimasti, per trascorrere l’agognata vacanza.

Ad agosto, la catena di montaggio si ferma: gli operai – e chi lavora nell’indotto – liberi per un mese.

Aveva senso.
Nell’Italia degli anni sessanta.

Oggi, nella società del mordi e fuggi, fermare la nazione – per una settimana! – è un concetto preistorico.

In Italia, la grande industria è praticamente assente.
Il massiccio esercito di operai (moderni), frammentato in mille unità precarie.
Ognuna con regole e tempi diversi, nessuna uniformità, ritmi specifici, diritti e doveri legati al territorio.

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La risposta ai tre perché

Permettere ai lavoratori (pubblici e privati) di consumare le proprie settimane di ferie (due, tre, quattro o cinque) tra il primo giugno ed il trentuno agosto.

Spalmare le vacanze in più mesi, evita:

  • lo stress dei lavoratori costretti a recarsi in ufficio fino ad estate inoltrata
  • il miglioramento della qualità dei servizi offerti in ogni settore
  • gli esodi di massa ed i relativi bollini rossi sulle autostrade italiane (con diminuzione degli incidenti stradali)
  • lo svuotamento delle città e l’azzeramento delle prestazioni (vedi anziani e chi necessita di assistenza)
  • la speculazione dell’alta stagione e lo sfruttamento indegna del turista
  • varie (furti in casa, abbandono degli animali …)

Con questo semplice accorgimento, le aziende (piccole e grandi) non si fermano e raggiungono un doppio obiettivo: soddisfare le esigenze del proprio impiegato, far consumare le ferie al lavoratore come stabilito dal contratto nazionale.

Resta un ultima domanda: in Italia, oggi perché andiamo ancora in vacanza tutti insieme come negli anni sessanta?


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Piero Ottone, il mio ricordo (e ringraziamento)

Piero Ottone, «Vizi e virtù» degli italiani

Appena mi capitava tra le mani il Venerdì di Repubblica, saltavo subito alla rubrica di Piero Ottone.

Dopo le invettive di Curzio Maltese sui politici ed il malaffare e le risposte ai più assurdi e stravaganti quesiti d’amore di Natalia Aspesi, giungeva «Vizi e virtù».

Piero Ottone, autore di «Vizi e virtù», la mia rubrica preferita sul Venerdì di Repubblica

«Vizi e virtù», per il piacere di leggere

Ignoravo chi fosse l’autore – un editorialista, il direttore del giornale, la firma più importante di Repubblica? – leggevo «Vizi e virtù» … per il piacere di leggere.

Ecco il punto: catturare l’attenzione per i soli contenuti senza influenzare il Lettore con l’importanza del nome è la massima aspirazione di chi scrive.

Tra quelle righe ironiche, serpeggiava la critica alla cafonaggine nostrana: un articolo apparentemente spensierato, per sorridere sulle abitudini malsane di noi italiani e riflettere sui pregi troppo spesso dimenticati.

Senza mai esasperare, col tocco leggero dei (veri) maestri di giornalismo.

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Piero Ottone contro i «mostri»

La notizia della scomparsa mi sorprende.
Non conoscevo nemmeno l’età di Piero Ottone ma – come accade per molti altri personaggi pubblici – chissà perché quando giunge l’irreparabile, lo stupore prende il sopravvento.

Sono convinto: a lui si ispirano parte dei mie post perché gli articoli di Piero Ottone denunciano «mostri».

In tempi non sospetti, con l’eleganza e la superiorità dei veri giornalisti, con la frivolezza di una rubrica presente in un settimanale, Piero Ottone derideva i cafoni, sbeffeggiava i maleducati, denunciava i comportamenti malandrini di noi italiani, un popolo in perenne oscillazione tra vizi e virtù.

La meta (irraggiungibile) alla quale aspira il sottoscritto.


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Ficarra e Picone: l’onestà vale solo per gli altri?

E se giungesse un Sindaco integerrimo?

Esco dal cinema con un senso di vergogna.
L’ora legale, il nuovo film di Ficarra e Picone, lascia interdetti.

La trama è incentrata su una domanda semplice dalla risposta non scontata.

L’italiano si lamenta della malapolitica.
Istituzioni corrotte, politici-ladri, nessuno compie il proprio dovere, meritocrazia assente, favori ad amici e parenti invece di operare per il bene comune.

Ebbene, se per una serie di coincidenze assurde, il Sindaco della tua città (piccola o grande, al sud o al nord) è una persona onesta, integerrima, incorruttibile, applica la Legge senza preferenze alcuna, rispetta le regole: come reagisce la società? 
(attenzione, parliamo di un Sindaco che, in altri Paesi, è «normale» mentre da noi sembra un alieno)

L'ora legale, il nuovo film di Ficarra e Picone

Italiani, popolo senza regole?

Siamo un popolo senza spina dorsale?
Allergici ad ogni tipo di regola del vivere civile?
Esiste una remota possibilità di cambiare la nostra nazione?

L’ora legale strappa risate amare su assurdità nostrane nelle quali ci riconosciamo perché vissute in prima persona.
Il film ha il merito di scuotere lo spettatore assuefatto alla ordinaria inciviltà che appare oramai ineluttabile.

Una fotografia comica e penosa dei nostri tempi, un film che non ti aspetti dal duo siciliano.

Perché al di là delle facili battute sulle difficoltà della raccolta differenziata, dell’accettazione del parcheggio in doppia fila, dei favoritismi per il non-rispetto della coda — è in discussione la cultura di un paese.

E’ facile criticare il prossimo ma essere onesti implica anche una serie di sacrifici individuali, l’azione in prima persona, il rifiuto del compromesso.

Siamo capaci?

L’onestà? La pretendiamo solo dagli altri

Vogliamo onestà dalle Istituzioni?
Pretendiamo trasparenza dai politici?
Esigiamo il rispetto delle regole?

Concetti affascinanti ma validi per gli altri.

Noi, invece, siamo esenti: gettiamo il sacchetto dell’immondizia a tutte le ore, accettiamo un favore dal politico di turno ma spariamo, sbraitiamo, urliamo contro il vicino se deposita il sacchetto fuori orario oppure è un raccomandato.

Assolviamo noi stessi e condanniamo gli altri: la ricetta è servita.
Ma dove ci porterà questo atteggiamento egoistico?

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L’ora legale, la conferenza di Ficarra e Picone


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Quale è la vincita minima per smettere di lavorare?

Vincere al Superenalotto: sì, ma quanto?

Basta un milione di euro.
La cifra copre l’intera esistenza di un adulto italiano con partner e prole.
Il milione d’euro permetterà all’intero nucleo di non lavorare mai e trascorrere una vita serena con uno stile medio.

Non navigherete nell’oro ma, almeno, non sopporterete più le angherie del capoufficio (o equivalenti) e potrete dedicare tutte le ventiquattro ore della giornata a ciò che veramente amate.

E questo non ha prezzo.

Vincere al Superenalotto? Sì, ma quanto?

Un euro a settimana

Il calcolo deve essere analitico.
Depenno l’emotività, la cifra è da capogiro: cento milioni più briciole è l’attuale montepremi del Superenalotto.

Investo l’euro settimanale, la lotteria per spegnere il computer dell’ufficio per sempre e dedicare il tempo – finalmente! – ai sogni irrealizzati.

Dunque: quale è la vincita minima per licenziarsi e vivere felice?

I reddito medio italiano: 20 mila euro

Reddito medio italiano: 20 mila euro

Secondo le statistiche, la vincita milionaria bussa alla porta una volta nella vita: ragiono con le mani bucate e prendo le stime massime.

Parto dall’ultimo dato Istat disponibile: il reddito medio in Italia è pari a 20.070€ e varia a secondo della zona.
Per eccesso, consideriamo il reddito massimo del nord ovest: 22.820€.

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Dopo quanti anni la pensione?

Il secondo parametro da fissare è il numero di anni lavorativi prima di giungere alla agognata pensione.

Tutte le riforme si basano su un concetto elementare: un lavoratore, più anni resta in ufficio (o qualsiasi altro posto) più tempo versa (i contributi) e meno riscuote (la pensione).

Dunque, lo Stato prolunga la vita media del lavoratore finché l’Alzheimer galoppante non prende il sopravvento.

Fisso a 40 anni la vita media del lavoratore moderno.
Evito di specificare come giungerà il Fantozzi del ventunesimo secolo alla meta, sono algebrico e scevro di considerazioni personali.

La formula

Il calcolo è bell’è fatto, la soluzione elementare:

  • reddito massimo italiano moltiplicato il numero di anni lavorativi
  • 23.000 x 40 = 920.000
  • sommo 80.000 tra inflazione, rivalutazione e le spese dal dentista

il cerchio si chiude: il milione è servito.

L’appello

Discorsi folli di un informatico sognatore?
Riflessioni estive sotto l’ombrellone?
Cifre sballate e numeri irraggiungibili?

Forse.
O forse no.

Ora mi rivolgo a te, amico Lettore alla ricerca continua di «mostri» da sconfiggere.

Fornisci una possibilità alla fortuna, altrimenti il milione lo vedrai sempre e solo dal binocolo.

D’altronde, sei giunto fino a questo punto, qualcosa significherà.
Interpreto il tuo impegno come la volontà di cambiare vita.
Concordo.

Investi un euro, il montepremi supera i cento milioni.
Se vinci, un paio tieniteli pure, il resto distribuiscilo.

Ricorda: basta un milione di euro per smettere di lavorare (per sempre).

A proposito, non essere ingordo altrimenti il prossimo «mostro» potresti essere proprio tu.
D’accordo?

PS: se vinci, ricordati del sottoscritto (mi accontento anche di centomila euro)

Il fascino dell’isola (vista dalla terraferma)

L’isola vista dalla terraferma

«Bella Capri! Appena possible torno per un weekend!» sospiro mentre da Pozzuoli osservo l’isola.

Il vento spazza via le nuvole, il panorama è limpido, la visuale nitida.
Capri sembra una donna distesa, affascinante.
Già, affascinante osservata con i piedi saldi sul continente, con la possibilità di girare le spalle e fuggire via dove desidero.

Auto, metropolitana, treno ed aereo sono – in teoria – disponibili.
Spazio infinito, nessun confine fisico limita la mia libertà.
Scatto la foto, «proprio bella Capri!».

Gli isolani come vivono sull'isola?

La vita sull’isola

Come sarà l’inverno su un’isola?
A quale velocità scorrono le giornate a Procida, un fazzoletto di terra raccolto in un palmo di mano?
Col maltempo ed i collegamenti sospesi, quale sensazione pervade un luogo immerso nel mare?

La realtà, poi, si capovolge con la bella stagione.
L’invasione dei turisti – pendolari e non – sconvolge gli equilibri e porta nuova linfa vitale.
Per un paio di mesi il caos travolge l’isola per poi far posto di nuovo al silenzio assoluto.

Come nel libro di Enzo G. Napolillo

Penso alla vita di Salvatore, il protagonista del bel libro di Enzo G. Napolillo,
Le tartarughe tornano sempre ambientato a Lampedusa.

Perché Lampedusa può essere una prigione per chi ci nasce e la terra promessa per chi sogna una vita diversa da guerra e violenza.
Dipende dal destino quale prospettiva ti regala.

Forse la citazione vale per tutti i luoghi?

Per quanto tempo resisti?

Chi nasce su un’isola, fin da piccolo, si abitua ai ritmi dell’oasi.
Prigione o Paradiso?
Dipende dalla prospettiva (personale) con la quale osservi il mondo.

Per il sottoscritto – cittadino metropolitano – trascorrere la vacanza in un luogo isolato è un piacere: niente affollamento, zero stress, calma e relax.
Il piacere è totale perché terminata la settimana di ferie, torno a casa a respirare boccate di sano smog, passeggiare per la città, ritrovare i miei piccoli, grandi «mostri» di sempre.

Riuscirei a vivere su un’isola?

Mentre rifletto, immagino che dal belvedere di Capri – proprio nello stesso istante – un isolano guarda Napoli, punta con lo smartphone la costa e scatta una foto.
Perplesso, si domanda: «come riescono a vivere in città?».


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Verdone, l’hai fatta grossa! (lettera di un fan deluso)

Caro Carlo,
perchè produci un film insignificante come L’abbiamo fatta grossa?

Oggi sei nel pieno della maturità artistica, potresti osare e sperimentare.
Invece assecondi un progetto commerciale nel quale la tua impronta è inesistente.

Ammettilo: nemmeno tu credi nella tua ultima pellicola.
Assolvo il povero Antonio Albanese, troppo fedele per essere criticato.
Scusami Carlo ma la colpa è tua.

Verdone, l'hai fatta grossa! (lettera di un fan deluso)

L’abbiamo fatta grossa non strappa una risata e non sprona nemmeno riflessioni.
In pratica non suscita emozioni e, sarai d’accordo, questa è la peggior condanna per un film.

Esco dalla sala indifferente, le scene scivolano via e non lasciano traccia nella mente e nel cuore.
Questo sentimento mi suscita rabbia.
Perché ti seguo da anni ed ogni tua storia rappresenta un pezzo importante nella filmografia italiana, un parte d’Italia descritta con ironia ed attualità.
Invece, questa ultima opera, è il vuoto assoluto.

Magari avrai pure racimolato qualche spicciolo facile ma con film simili perdi una fetta di credibilità verso i tuo fans.

Fumati una sigaretta, prenditi pure il giusto periodo di riflessione, non accettare i tempi frenetici ed i ricatti dei produttori.
Ai mercenari non interessa l’opinione dei tuoi fans, i manager contano solo il numero di biglietti staccati.

Caro Carlo, stavolta hai abusato del nostro affetto (lo sai noi ti perdoniamo tutto).
Aspetto il tuo prossimo film, un nuovo Iris Blond mi renderebbe felice.
E – sono convinto – renderebbe felice soprattutto te.

Pete Sampras, il mio (famoso) sosia

I gemelli del tennis

D’accordo, ho solo un pizzico di Brad Pitt e da lontano ricordo Richard Gere.
Invece, io e Pete Sampras, siamo due gocce d’acqua.

Ad essere precisi, quella vecchia racchetta ha messo piede sul pianeta Terra sette mesi dopo il mio atterraggio.
Lui è nato in un caldo agosto del ’71, io nel freddo autunno del ’70 (ottima annata, non vi è dubbio).

Immagino gli amici dell’ex numero uno del tennis mondiale navigare su internet, scoprire l’originale e restare a bocca aperta di fronte all’evidenza: il mito Pete Sampras ha un sosia, il sottoscritto.

Io e Pete Sampras, due gocce d'acqua

Io e Pete Sampras, due gocce d’acqua

Io e Sampras: la scheda

Pete è alto 185 cm, io 178.
Lo scrivente più longilineo (l’americano pesa 80 kg, qualche etto in più rispetto al peso forma dell’italiano), entrambi destri e scuri di carnagione, amanti del buon cibo ed attenti alla forma fisica.

Il napoletano (sempre io) si preferisce per l’eleganza nei movimenti, il sette volte vincitore di Wimbledon per la potenza della muscoli.

Il sottoscritto – secondo fonti non ufficiali – nuota meglio (sia al mare che in piscina, laghi e fiumi non contemplati) e, dall’ultimo sondaggio SIAE, risulta più intonato.

L’incontro: l’appello allo sponsor

Nonostante l’evidente affinità, Pete non si è fatto vivo.
Per una questione di età – è lui il giovanotto – attendo un suo cenno ma l’ex atleta (oggi con una pancetta rilassata) resta prigioniere della timidezza.

E’ vero: tutti e due non alimentiamo gossip, evitiamo scandali e paparazzi, detestiamo le serate mondane, preferiamo vivere lontano dai riflettori.

Ma oggi il destino ci mette lo zampino, anzi la racchetta: entrambi utilizziamo la medesima Wilson (che firma anche le nostre scarpe, calzini, i pantaloncini e maglietta ma, secondo i fashion blogger, il più anziano – sempre io – è comunque più chic).

Dunque, l’idea: la Wilson sponsorizza l’incontro tra il sottoscritto e Pete Sampras.

Il mio impegno per i fans

La multinazionale dell’abbigliamento sportivo investe e stanzia i (volgari) soldi, lo scrivente raggiunge il sosia junior a New York, pernotta nella suite dell’Hilton Hotel, per esibizione gioca qualche set col campione americano sul cemento di Flushing Meadows, posa per le riviste a Times Square, vive la Grande Mela con la guida di Sampras, redige un diario degli eventi per la gioia di voi appassionati fans.

Io ci sto, e tu Pete?

PS: ovviamente, per l’intero mese newyorkese (scusatemi, non posso restare oltre), vestirò Wilson 🙂


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Perché non vivo a Milano (nonostante #hpemergency)

Milano, città generosa

Nel produttivo meccanismo lombardo, c’è un’opportunità per tutti.
Il gigantesco congegno gira senza mai incepparsi da più di cinquant’anni e sostiene l’intera economia del Nord.

Chiunque giunga a Milano – i campani, pugliesi e calabresi di ieri o gli egiziani, siriani, filippini di oggi – può contribuire a tener vivo il sistema.

Potrà insediarsi in un anello infinitesimale del congegno, essere un nuovo bullone in una serie di bulloni invisibili oppure ampliare l’insieme inventandosi nuove funzionalità.

Dipende dalle proprie potenzialità e capacità, Milano è pronta ad inserire il volenteroso nel sincronismo perfetto.

Milano al settimo posto, Napoli al novantaseiesimo

La pagella finale stilata dal Sole 24Ore per il 2014 premia Milano con un lodevole settimo posto.
Nella classifica annuale che misura la qualità della vita, il capoluogo lombardo è la prima tra le grandi metropoli italiane (precede Roma di cinque posti).

I numeri bocciano il Sud e Napoli: nonostante guadagni undici posizioni rispetto all’anno precedente, la nostra città resta nei bassifondi con il desolante novantasei appiccicato sul Vesuvio.

Perché non vivo a Milano (per ora)

Perché non vivo a Milano (per ora)

La qualità della (mia) vita

Lo scorso luglio pernotto a Milano per un paio di giorni.
Mancavo dal capoluogo lombardo dal lontano 2004 (allora ero uno dei tanti pendolari: mi fermavo dal lunedì al venerdì per rientrare a Napoli nel weekend e ripartire ad inizio settimana).

A distanza di dieci anni, trovo la città più accogliente ed organizzata.

L’efficienza dei trasporti pubblici è – se possibile – migliorata, la puntualità della metropolitana e degli autobus, la pulizia delle strade, gli eventi per l’EXPO sono aspetti positivi di un quotidiano buon funzionamento della macchina lombarda.

Una metropoli italiana al pari delle più grandi capitali europee, ne sono convinto.

Bastano questi parametri per valutare la qualità della vita?

No.
Io a Napoli vivo bene, nonostante il 96, numero scarlatto.

Finché potrò lavorare nella mia caotica città, contribuirò a migliorare il disordinato meccanismo partenopeo che, seppure non risulta efficiente come l’orologio milanese, conta sulla generosità, volontà, tenacia, dignità e talento di un popolo abituato ad affrontare le avversità da sempre.

Dateci solo la possibilità di restare a Napoli, fermate #hpemergency.

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